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Aree di classificazione: DIRITTO ALLA MOBILITÀ - LEGGE 104/92 

MAGISTRATURA: TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA SICILIA
LUOGO: Palermo
DATA: 5 agosto 2010
TIPO: Sentenza
NR. PROVVEDIMENTO: 9199


TITOLO: lo studio del medico di medicina generale, anche associato, poiché destinato allo svolgimento di un servizio pubblico, va considerato come locale "aperto al pubblico" e quindi soggetto all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche.

ok LOCALI AD USO STUDIO MEDICO ok STUDIO ASSOCIATO ok CONCETTO DI "APERTO AL PUBBLICO" ok ACCESSIBILITÀ ok SERVIZIO PUBBLICO ok REGIME AUTORIZZATORIO ok BARRIERE ARCHITETTONICHE ok ART. 24 LEGGE 104/92

> Il fatto

I ricorrenti hanno impugnato i provvedimenti per la realizzazione di alcuni interventi edilizi finalizzati al mutamento della destinazione d'uso di un immobile per lo svolgimento di attività sanitarie. Uno dei punti del ricorso riguardava il rilascio del certificato di agibilità, che avrebbe dovuto essere preceduto dall'acquisizione, da parte dell'Amministrazione, del parere della competente Azienda sanitaria territoriale e dalla verifica della dichiarazione di conformità delle opere realizzate alla normativa vigente in materia di accessibilità e superamento delle barriere architettoniche. I controinteressati sostengono la tesi che nessuna autorizzazione sarebbe stata necessaria per la destinazione dell'immobile a studio medico, ancorché gestito in forma associata, e ciò sulla base anche delle disposizioni contenute nel t.u. delle leggi sanitarie (r.d. n. 1265/1934), secondo le quali si tratterebbe di attività - quella in argomento - non soggetta al rilascio del nulla osta dell'autorità sanitaria locale. Il Comune invece sostiene che la verifica del rispetto di una specifica disciplina di settore, quale quella inerente all'abbattimento delle barriere architettoniche, rientrerebbe nell'ambito di attribuzioni non già proprie del Comune ma di (non meglio definite) "altre amministrazioni competenti" (cfr. memoria del 21 agosto 2006), e, per altro verso, che gli studi di medicina generale, in quanto studi privati, non soggiacerebbero - ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto dell'Assessore regionale della Sanità 8 agosto 2007 - ad alcun obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto previsto solo per gli studi specialistici accreditati. Il TAR ribadisce che, ai sensi del combinato disposto dell'art. 22 del d. P.R. n. 270 del 2000 e dell'art. 24 della l. n. 104 del 1992, gli studi medici di medicina generale, poiché destinati allo svolgimento di un servizio pubblico (art. 36 accordo del 20 gennaio 2005), vanno considerati, per ciò stesso, locali (quantunque privati) "aperti al pubblico", nell'accezione risultante dal predetto art. 24 (posto che, oltretutto, il medico, alle condizioni fissate dagli accordi regionali, svolge il servizio anche nei confronti di cittadini che non sono suoi assistiti), ossia locali presso i quali la generalità degli utenti del servizio pubblico può accedere senza formalità e senza bisogno di particolari permessi negli orari stabiliti (le cui variazioni sono sottoposte a comunicazione) e sottoposti all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche secondo quanto stabilito dalla legge, in conformità ai principi di cui alla richiamata l. n. 67 del 2006.

> La massima

Da un punto di vista formale, lo studio medico di medicina generale, anche quando gestito in forma associata, non muta per ciò solo la sua natura giuridica ai fini del regime autorizzatorio sul piano sia sanitario sia urbanistico, salve eventuali differenziazioni tra studio medico singolo e studio medico associato che possono venire in rilievo, astrattamente, nelle ipotesi di diversa disciplina dei rapporti condominiali (con regolamenti aventi natura contrattuale) ovvero in sede di esercizio della potestà regolamentare comunale. Ai sensi del combinato disposto dell'art. 22, d.P.R. 28 luglio 2000 n. 270, e dell'art. 24, l. 5 febbraio 1992, gli studi medici di medicina generale, poiché destinati allo svolgimento di un servizio pubblico, vanno considerati, per ciò stesso, locali (quantunque privati) "aperti al pubblico", nell'accezione risultante dal predetto art. 24, ossia locali presso i quali la generalità degli utenti del servizio pubblico può accedere senza formalità e senza bisogno di particolari permessi negli orari stabiliti (le cui variazioni sono sottoposte a comunicazione) e sottoposti all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche secondo quanto stabilito dalla legge, in conformità ai principi di cui alla richiamata l. 1 marzo 2006 n. 67

> Testo per esteso

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Terza)

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1713 del 2006, integrato da motivi aggiunti, proposto da G. D. e N. V., rappresentati e difesi, per procura a margine di atto di costituzione di nuovi procuratori, congiuntamente e disgiuntamente, dal Prof. Avv. Giovanni Pitruzzella e dall'Avv. Maria Beatrice Miceli, ed elettivamente domiciliati
presso il loro studio in Palermo, via N. Morello, n. 40;
contro
- il Comune di Licata, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avv. Michele Burgio, elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. Rita Cantavenera in Palermo, via Notarbartolo, n. 5;
- l'Azienda U.S.L. n. 1 di Agrigento (cui è subentrata l'A.S.P. di Agrigento ai sensi dell'art. 8 l.r. 14 aprile 2009, n. 5), in persona del Direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avv. Giovanni Iacono Manno ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avv. Giacomo Cuffaro in Palermo, via Sciuti, n. 164;
nei confronti di
- V. C., rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente, per procura a margine di costituzione di nuovo procuratore, dagli Avv.ti Girolamo Rubino e Dario Anzalone, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Palermo, via Oberdan, n. 5;
- C. C. M., rappresentata e difesa dall'Avv. Dario Anzalone, con domicilio eletto presso il suo studio in Palermo, via Houel, n. 30;
per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia,
A) quanto al ricorso introduttivo:
- del "titolo edificatorio" conseguito dai controinteressati per effetto del decorso del termine assegnato all'Amministrazione per l'inibizione dei lavori di cui alle denunce di inizio di attività del 24.5.2005 e del 15.12.2005, entrambe volte al mutamento di destinazione di un immobile sito in Licata;
- della nota del 21 giugno 2006 prot. n. 26426 di reiezione dell'istanza dei ricorrenti con cui si sollecitava l'esercizio dei poteri di vigilanza urbanistica, mediante annullamento in autotutela del titolo edificatorio predetto e conseguente ripristino della precedente destinazione;
- del provvedimento n. 403/70 del 4.4.2006, con cui è stata rilasciata ai controinteressati l'agibilità/abitabilità di un immobile, consentendone l'utilizzazione per l'esercizio di attività e pratiche sanitarie;
B) quanto al ricorso per motivi aggiunti:
"- a) del permesso di costruire in sanatoria n. 7 del 17 marzo 2008 rilasciato ai controinteressati in uno con il provvedimento impugnato sub b);
- b) della determinazione del dirigente del Dipartimento Urbanistica e Gestione del Territorio del Comune di Licata n. 222 del 17 marzo 2008 avente ad oggetto "rilascio permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d. P.R. n. 380/01"
- c) ove occorra e per quanto di ragione, della proposta di determinazione dirigenziale n. 212 del 17 marzo 2008;
- d) della nota, con numero di protocollo illeggibile, con cui il Comune di Licata - Dipartimento Urbanistica, ha comunicato ai ricorrenti l'avvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria;
- e) della nota prot. n. 108/DPL 13LI/08/46 del 19 febbraio 2008, citata nei provvedimenti impugnati sub a) e b), e resa nota ai ricorrenti solo a seguito dell'esercizio del diritto d'accesso, con la quale l'Azienda U.S.L. ha rilasciato parere favorevole alla realizzazione dei lavori;
- f) ove occorra e per quanto di ragione, del verbale di ispezione del 6 luglio 2006, di cui alla nota prot. n. 122 del 20 aprile 2007, citato nel parere impugnato sub e);
- g) ove occorra e per quanto di ragione, del parere legale citato nei provvedimenti impugnati;
- h) ove occorra e per quanto di ragione, del parere favorevole reso dal responsabile del procedimento in data 20 febbraio 2008 e citato nei provvedimenti impugnati sub a), b) e c)
- i) del parere favorevole espresso dalla Commissione edilizia comunale in data 4 marzo 2008;
- j) ove occorra e per quanto di ragione, della nota prot. n. 4696 del 1° giugno 2007 dell'Azienda Unità sanitaria locale n. 1;
- h) della nota prot. n. 6405 del 7 febbraio 2008, con la quale il dirigente f.f. del Dipartimento Urbanistica ha disposto l'"esame urgente" dell'istanza di sanatoria edilizia dei sigg.ri V. - C.;
- l) dei provvedimenti impugnati con il ricorso introduttivo;
- m) di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale".
Visti il ricorso ed i motivi aggiunti con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle intimate Amministrazioni;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dei controinteressati;
Viste le memorie difensive prodotte dalle parti;
Vista l'ordinanza n. 1064/2006 con cui è stata respinta la domanda cautelare di sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti impugnati;
Vista l'ordinanza del C.g.a. n. 166/2007 con cui è stato accolto l'appello cautelare;
Viste le ordinanze del C.g.a. n. 276/08 (con cui è stata accolta l'istanza di esecuzione dell'ordinanza n. 166/2007) e n. 42/2008 (con cui è stata dichiarata inammissibile l'istanza di revoca dell'ordinanza n. 166/2007)
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore il referendario dott. Giuseppe La Greca;
Uditi all'udienza pubblica del 20 luglio 2010 gli Avv.ti M.B. Miceli per la parte ricorrente; l'Avv. F. Tecla, su delega dell'Avv. M. Burgio, per il Comune di Licata; l'Avv. G. Russo, su delega dell'Avv. G. Iacono Manno, per l'A.S.P. di Agrigento; l'Avv. Lucia Alfieri, su delega dell'Avv. G. Rubino, per il controinteressato C. V.;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

1. Con ricorso notificato il 20 luglio 2006 e depositato il successivo 1° agosto, i ricorrenti hanno impugnato i provvedimenti in epigrafe, concernenti la realizzazione, da parte dei controinteressati, di taluni interventi edilizi ed il mutamento della destinazione d'uso per lo svolgimento di attività sanitarie, conseguenti alla presentazione della d.i.a, relativa all'immobile di proprietà dei medesimi controinteressati sito in Licata, corso Umberto n. 51.

2. Il ricorso è articolato in due motivi con cui si deducono i seguenti vizi:
1) Violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili: poiché la d.i.a. sarebbe stata presentata in difetto dei presupposti di legge, ricadendo l'immobile dei controinteressati in zona "A" del P.R.G. del Comune di Licata, ciò che avrebbe impedito il cambio, mediante d.i.a., di destinazione dell'immobile da appartamento di civile abitazione a "presidio sanitario privato";
2) Violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili: poiché il rilascio del certificato di agibilità avrebbe dovuto essere preceduto dall'acquisizione, da parte dell'Amministrazione, del parere della competente Azienda sanitaria territoriale e dalla verifica della dichiarazione di conformità delle opere realizzate alla normativa vigente in materia di accessibilità e superamento delle barriere architettoniche.

3. Si è costituito in giudizio il Comune di Licata che, con memoria, ha preliminarmente eccepito il difetto di interesse di parte ricorrente stante il possibile (e potenziale) rilascio di un provvedimento di concessione (recte: permesso di costruire) in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, ciò che, in tesi, priverebbe di utilità la eventuale pronuncia di accoglimento del gravame ove fondata sulla censura di illegittimità dell'intervento edilizio eseguito sulla base della semplice d.i.a.; la difesa del Comune ha comunque concluso per l'infondatezza del ricorso.

4. Si è costituita in giudizio l'Azienda U.S.L. n. 1 di Agrigento che ha chiesto disporsi la propria estromissione dal giudizio stante l'estraneità alla controversia ed ha comunque concluso per l'infondatezza del ricorso.

5. Si sono altresì costituiti in giudizio i controinteressati che, con memoria, hanno contrastato le argomentazioni di parte ricorrente e chiesto il rigetto del ricorso.

6. I ricorrenti hanno insistito nelle loro posizioni e, a loro volta, replicato alle deduzioni delle parti avverse.

7. Con ordinanza n. 1064/2006 è stata respinta la domanda di sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti impugnati, successivamente accolta, in sede di appello cautelare, dal C.g.a. con ordinanza n. 166/2007.

8. Con successivo ricorso per motivi aggiunti, notificato il 22 maggio 2008 e depositato il successivo 16 giugno, i ricorrenti hanno impugnato il permesso di costruire in sanatoria n. 7 del 17 marzo 2008 rilasciato ai controinteressati e la connessa determinazione dirigenziale di accompagnamento n. 212 del 17 marzo 2008.
Con i motivi aggiunti si deducono i seguenti vizi dei provvedimenti impugnati:
1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 1 della l. n. 13 del 1989 e del d.m. LL.PP. n. 236 del 1989 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria: poiché il rispetto delle norme sull'abbattimento delle barriere architettoniche, assunto a presupposto dell'accertamento di conformità, sarebbe stato affermato - a parte le dedotte questioni inerenti all'effettivo montaggio del montascale ed alla conformità della porta di ingresso girevole - solo sulla base di un'istruttoria asseritamente approssimativa, essendosi limitato il Comune a prendere atto della sussistenza dei requisiti, come si evincerebbe dai sopralluoghi e dal parere favorevole reso dall'Azienda U.S.L. n. 1;
2) Violazione e falsa applicazione dei principi in materia di deliberazioni degli organi collegiali, eccesso di potere per difetto di istruttoria, poiché il parere favorevole della commissione edilizia, in tesi, non sarebbe stato oggetto di valida approvazione, ciò che avrebbe viziato l'istruttoria del procedimento di rilascio dell'impugnato permesso di costruire.

9. Anche con riferimento ai motivi aggiunti, con rispettive memorie prodotte in prossimità dell'udienza pubblica, il Comune di Licata, il controinteressato V. C. e la resistente A.S.P. di Agrigento (subentrata alla intimata Azienda U.S.L. n. 1) hanno contrastato le doglianze dedotte da parte ricorrente, ribadendo, altresì, l'asserita improcedibilità del ricorso considerato l'avvenuto il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001.

10. Con memoria depositata in prossimità dell'udienza l'Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento ha ribadito la propria estraneità al giudizio e comunque concluso per il rigetto del ricorso.
11. All'udienza pubblica del 20 luglio 2010, presenti i procuratori delle parti che hanno insistito nelle rispettive domande e conclusioni, il ricorso, su conforme richiesta degli stessi, è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Ai fini di una migliore comprensione delle questioni sottoposte alla cognizione del Collegio, occorre ricostruire succintamente la vicenda sulla quale si è innestata la presente controversia.
I controinteressati sigg.ri V. e C., proprietari di un appartamento sito in Licata, corso Umberto n. 51 (zona "A" del P.R.G.), ed allocato in una palazzina di proprietà, per altra parte, degli odierni ricorrenti (sigg.ri G. e N.), hanno presentato una d.i.a. con la quale hanno reso noto l'intendimento di procedere alla realizzazione di talune opere interne al fine di adeguare l'appartamento in argomento e renderlo idoneo ad un utilizzo quale studio medico, finalità per la quale hanno chiesto pure il necessario cambio di destinazione d'uso.
I ricorrenti, a causa del potenziale aumento del carico urbanistico determinato dal nuovo utilizzo, hanno contestato l'assenso del Comune al mutamento di destinazione, deducendo che lo stesso è stato accordato senza il loro consenso: indi ne hanno chiesto l'annullamento in autotutela con conseguente "ripristino della destinazione precedente".
Rispetto a tale istanza di autotutela il Comune ha opposto il proprio diniego, impugnato con l'odierno ricorso introduttivo.
Questo Tar, in sede di pronuncia sull'istanza cautelare non ha disposto la sospensione dell'esecuzione dei provvedimenti impugnati, dai ricorrenti successivamente ottenuta in sede di impugnativa (ord. C.g.a. n. 166/07), allorché il Giudice d'appello ha accolto la relativa domanda ai fini di un riesame da parte del Comune di Licata (come dallo stesso C.g.a. ribadito in sede di incidente di esecuzione della medesima ordinanza, cfr. ord. n. 42/2008).

Gli elementi di rilievo sui quali il Giudice d'appello ha ritenuto necessario un approfondimento da parte dell'Amministrazione riguardavano il titolo edilizio necessario all'esecuzione degli interventi, la conformità urbanistica degli stessi, la sussistenza dei presupposti di legge per l'agibilità, con particolare riferimento alle misure per l'abbattimento delle barriere architettoniche.
Successivamente, al fine di emendare gli effetti della d.i.a. (ed il diniego di autotutela) dai vizi denunziati dai ricorrenti (primo fra tutti l'asserita impossibilità di procedere agli interventi edilizi ed alla nuova destinazione attraverso tale strumento), i controinteressati V. e C., su suggerimento del Comune - che, all'uopo, ha pure acquisito specifico parere legale da parte di privato professionista -, hanno presentato, per il medesimo immobile e per la medesima nuova destinazione frattanto già realizzata (come si evince dall'ordinanza C.g.a. resa in sede di incidente di esecuzione), istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d. P.R. n. 380 del 2001.
Detta istanza è stata accolta con contestuale rilascio di siffatto titolo edilizio in data 17 marzo 2008.
Avverso quest'ultimo provvedimento i ricorrenti hanno proposto ricorso per motivi aggiunti, con cui hanno sostanzialmente, in via di estrema sintesi, ribadito, tra le altre, le doglianze inerenti alla asserita incompatibilità urbanistica della nuova destinazione d'uso, nonché l'illegittimità del provvedimento sotto altri diversi profili, in particolare, per difetto di istruttoria stante l'addotta mancata verifica della conformità alle disposizioni sull'abbattimento delle barriere architettoniche.

2. Ciò precisato, vanno preliminarmente esaminate le eccezioni in rito sollevate dall'Azienda U.S.L. n. 1 di Agrigento, nonché dai controinteressati.
2.1. L'Azienda U.S.L. n. 1 (cui, come s'è detto, è subentrata l'A.S.P. di Agrigento), ha eccepito e, successivamente, con memoria del 25 giugno 2010 (cfr. pag. 12), ribadito, la propria estraneità al giudizio ed ha chiesto la conseguente estromissione dallo stesso.
Ad avviso del Collegio l'eccezione è infondata.
Non può, infatti, essere disposta l'estromissione dell'Azienda sanitaria per difetto di legittimazione passiva nel presente giudizio (avente ad oggetto il provvedimento con cui il Comune ha negato l'adozione dei provvedimenti inibitori della realizzazione di attività sottoposta a d.i.a. e successivamente rilasciato il permesso di costruire in sanatoria concernente i medesimi interventi), atteso che pur non essendo detta Amministrazione preposta all'adozione del provvedimento conclusivo, gli atti di natura consultiva ed endoprocedimentale, dalla stessa adottati, nel caso di specie risultano essere oggetto di specifica impugnativa.

Va pertanto affermata la legittimazione passiva non solo dell'amministrazione che ha un interesse sostanziale al mantenimento degli atti impugnati, ma anche di quelle che hanno posto in essere atti endoprocedimentali, in quanto l'annullamento dell'atto conclusivo può comportare il travolgimento anche degli atti del procedimento e ciò specialmente quando oggetto delle censure è proprio l'atto endoprocedimentale recepito e posto a base del provvedimento finale dell'amministrazione: ciò che, nel caso di specie, impedisce di disporre l'estromissione dal giudizio della resistente Azienda U.S.L. n. 1 di Agrigento (cui è subentrata l'A.S.P. per effetto della l.r. n. 5 del 2009).

2.2. Una seconda eccezione, sollevata dai controinteressati, è tesa a revocare in dubbio la permanenza dell'interesse dei ricorrenti con riferimento ai motivi di impugnazione proposti con il ricorso introduttivo, stante l'avvenuto rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
L'eccezione è fondata.
Il permesso di costruire sopravvenuto, determina, dal lato procedimentale, la privazione di effetti sia della d.i.a. che del certificato di agibilità del 4 aprile 2006; dal lato processuale comporta - quanto al ricorso introduttivo - la sopravvenuta carenza di interesse, e ciò con riferimento alle complessive censure ivi dedotte, le quali sono state in parte sostanzialmente riproposte con i motivi aggiunti.
Il sopravvenuto accertamento di conformità posto in essere dal Comune, in definitiva, comporta un mutamento della situazione che aveva dato luogo all'originaria impugnativa, di guisa che il Collegio, deve dare atto della circostanza che è venuto meno l'interesse al ricorso (introduttivo), con conseguente declaratoria di improcedibilità dello stesso (conseguentemente priva di rilievo anche l'eccezione sollevata dai controinteressati relativa ai "confini" dello ius postulandi del difensore di parte ricorrente).

3. Può adesso passarsi all'esame dei motivi aggiunti, comprensivi delle censure già dedotte in seno al gravame introduttivo e che parte ricorrente estende, seppur per relationem, ai provvedimenti qui impugnati.

4. Ritiene il Collegio di dover muovere, poiché prioritario, dalla trattazione del terzo motivo, concernente l'asserita incompatibilità urbanistica dello studio medico e l'asserita contrarietà della destinazione d'uso ai canoni normativi di riferimento (cfr. primo motivo del ricorso introduttivo).
Secondo la originaria prospettazione dei ricorrenti, sussisterebbero profili di illegittimità dei provvedimenti impugnati poiché:
a) l'immobile per cui è causa sarebbe effettivamente utilizzato quale vero e proprio "presidio sanitario privato" non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità e fonte di notevole carico urbanistico (per ciò stesso incompatibile con la destinazione urbanistica del centro storico);
b) il Comune non avrebbe verificato la conformità urbanistica della destinazione assentita, di guisa che il cambio della destinazione d'uso sarebbe affetto da eccesso di potere per difetto d'istruttoria;
c) il cambio di destinazione d'uso è stato accordato in assenza del consenso dei ricorrenti;
d) la nuova destinazione, poiché inerente ad un (asserito) presidio sanitario privato, non sarebbe riconducibile tra le destinazioni "connesse con la residenza" (posto che ove riconducibile tra queste nessuna formale variazione della destinazione d'uso sarebbe stata necessaria);
e) la variazione di destinazione d'uso sarebbe stata emanata, ad avviso dei ricorrenti, in violazione di legge poiché in contrasto con l'art. 5 del d.m. n. 1444/1968.
Con i motivi aggiunti, parte ricorrente ha ribadito, quanto alla compatibilità urbanistica, che l'intervento "in esame [...] non appare conforme alla destinazione urbanistica prevista per la Z.T.O. "A", in cui l'immobile (sito in Corso Umberto, n. 51) si trova", stante che l'art. 45 delle n.t.a. del P.R.G. vigente consentirebbe, come detto, la destinazione degli immobili alla residenza ed attività alla stessa complementari.
Le doglianze sono infondate.
Ed invero, preliminarmente, quanto all'addotta necessità dell'assenso degli altri proprietari, va considerato che nel caso di specie non viene in rilievo alcuna disposizione di regolamento condominiale avente natura contrattuale ovvero altra disposizione di rango negoziale ulteriormente limitativa delle destinazioni d'uso ammesse dalla legge e dagli strumenti di pianificazione urbanistica, per cui nessun "consenso" dei privati proprietari di unità immobiliari insistenti nel medesimo stabile è richiesto, e ciò quantunque gli odierni ricorrenti rivestano la connessa (a tale proprietà) qualità di controinteressati in sede procedimentale nell'accezione di cui all'art. 7 della l. n. 241 del 1990.

Anche la censura sull'asserita contrarietà dell'intervento e delle destinazione d'uso alle previsioni urbanistiche è priva di fondamento.
La tesi dell'incompatibilità dello "studio medico poliambulatoriale" con le previsioni delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Licata è contrastata dall'Amministrazione comunale la quale - come del pari i controinteressati - afferma che, in realtà, non si tratterebbe di un ambulatorio (o poliambulatorio) ma di un semplice "studio medico" convenzionato di medicina generale.
Le difese delle parti resistenti, valorizzando in massima misura il carattere polisemico dei termini (studio medico, ambulatorio privato, poliambulatorio, ecc.), si concentrano nel sostenere la tesi che nessuna autorizzazione sarebbe stata necessaria per la destinazione dell'immobile a studio medico, ancorché gestito in forma associata, e ciò sulla base anche delle disposizioni contenute nel t.u. delle leggi sanitarie (r.d. n. 1265/1934), secondo le quali si tratterebbe di attività - quella in argomento - non soggetta al rilascio del nulla osta dell'autorità sanitaria locale.

Alla censura secondo cui detta destinazione sarebbe contraria alla previsione del richiamato art. 45 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. di Licata, l'Amministrazione replica che l'intervento in questione non integrerebbe il caso di una "ristrutturazione edilizia" ma costituirebbe un "risanamento conservativo", in relazione al quale il piano particolareggiato di recupero del centro storico non prevede limitazioni per nuove destinazioni d'uso, quantunque fonte di un possibile aumento del carico urbanistico.
In punto di fatto, i controinteressati sottolineano che nell'appartamento insistono cinque locali destinati ad altrettanti studi medici che non darebbero luogo ad un "presidio sanitario privato" e che, ai sensi del d. P.R. n. 270 del 2000 (recante il "Regolamento di esecuzione dell'accordo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale"), lo studio medico ben può essere inserito in un appartamento di civile abitazione.
Ciò posto, dagli atti di causa emerge che, in realtà, all'interno dell'appartamento svolgono la propria attività quattro medici di medicina generale convenzionati con il Servizio Sanitario Nazionale e la cui struttura è stata giudicata idonea allo svolgimento di siffatta attività, così come emerge che la valutazione della compatibilità urbanistica è da ritenersi essere stata correttamente posta in essere dall'Amministrazione.
Il piano particolareggiato di recupero del centro storico ammette in maniera del tutto chiara la possibilità di destinare le unità immobiliari insistenti nell'ambito del centro storico ad "usi amministrativi e di servizio" (art. 35 N.T.A. P.P.R.C.S.), e nello specifico, ad "uffici, studi professionali, sportelli bancari, agenzie di interesse turistico e similari [...]" (cfr. art. 36 N.T.A. P.P.R.C.S.).
Non può prestarsi adesione al percorso argomentativo di parte ricorrente sulla configurabilità, in tesi, dello studio associato quale "poliambulatorio", ed in quanto tale, incompatibile con le previsioni urbanistiche, posto che è incontestato che tutti i medici che operano nell'appartamento di proprietà dei controinteressati sono titolari di convenzione di medicina generale, e che essi esercitano l'attività professionale oggetto di tale convenzione.

Da un punto di vista formale, lo studio medico di medicina generale, anche quando gestito in forma associata, non muta per ciò solo la sua natura giuridica ai fini del regime autorizzatorio sul piano sia sanitario sia urbanistico; salve eventuali differenziazioni tra studio medico singolo e studio medico associato che possono venire in rilievo, astrattamente, nelle ipotesi di diversa disciplina dei rapporti condominiali (con regolamenti aventi natura contrattuale) ovvero in sede di esercizio della potestà regolamentare comunale.
Anche la denunziata indicazione di talune specializzazioni (conseguite da alcuni dei medici titolari dello studio) nella targa all'ingresso dello stabile, non può ritenersi valido argomento per presumere, come parte ricorrente vorrebbe, un utilizzo dell'immobile asseritamente difforme rispetto a quello dichiarato, assentito ed ammesso dalla disciplina di piano.
In definitiva, l'utilizzo dell'appartamento da parte di singoli medici di medicina generale, a prescindere dalla astratta qualificabilità o meno dello studio (o degli studi) quale poliambulatorio, non può ritenersi incompatibile con le previsioni di piano soprarichiamate, e ciò a prescindere dal dedotto potenziale incremento del carico urbanistico: evenienza che, quanto proprio al centro storico, è stata presa in considerazione dall'organo di pianificazione, allorché esso ha considerato ammissibili attività, quali quelle sopraelencate, in relazione alle quali, per la loro natura, non si può escludere in radice un siffatto aumento.

In ogni caso, lo studio medico associato in argomento, sotto un profilo squisitamente urbanistico, e solamente sotto tale aspetto, non appare incompatibile con la connotazione residenziale dell'edificio, voluta dalle norme tecniche di attuazione del P.R.G.
Quanto al nocumento derivante da siffatto utilizzo, denunziato dalla difesa di parte ricorrente anche nel corso della discussione orale, va sottolineato che qualora, in ipotesi, si registri un utilizzo concreto ed effettivo dell'appartamento di proprietà esclusiva in maniera disfunzionale rispetto alle modalità ammesse (tali da richiamare l'idea dell'"abuso del diritto" di civilistica estrazione) ovvero lesivo, sotto altri aspetti, della sfera giuridica soggettiva dei (com)proprietari della palazzina, potrebbe, in astratta ipotesi, ravvisarsi una situazione per la quale l'ordinamento appresta una specifica tutela dinanzi al giudice ordinario (si pensi, ad esempio, al caso di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, a norma dell'art. 844 c.c.), e della quale, parte ricorrente può, ovviamente, avvalersi.
Anche la dedotta violazione dell'art. 5 del d.m. 1444 del 1968 è infondata, risultando il campo di applicazione del medesimo decreto ministeriale limitato "ai nuovi piani regolatori generali e relativi piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate; ai nuovi regolamenti edilizi con annesso programma di fabbricazione e relative lottizzazioni convenzionate; alle revisioni degli strumenti urbanistici esistenti" (cfr. art. 1).

L'elemento caratteristico di tale normativa è, infatti, quello della delimitazione dei destinatari, che sono gli organi stessi della pianificazione urbanistica e non già i soggetti (ivi compresa la stessa p.a. nell'esercizio di funzioni diverse da quella di pianificazione) che in concreto dovranno attuare e rispettare le specifiche destinazioni d'uso del territorio; essa quindi non ha diretta incidenza sulle proprietà e sulla sfera giuridica dei proprietari ovvero sui parametri di applicazione delle norme di piano in vigore.

5. Con il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti i ricorrenti deducono l'illegittimità del permesso di costruire in sanatoria per difetto d'istruttoria, poiché il Comune non avrebbe concretamente valutato il rispetto delle norme sull'abbattimento delle barriere architettoniche, presupposto per il rilascio del certificato di agibilità.
In particolare, a parte le varie questioni riguardanti singoli elementi asseritamente ostativi al libero accesso dei disabili, essi sostengono che l'Amministrazione, piuttosto che valutare in concreto la conformità dell'immobile nel suo complesso alle disposizioni in materia (di eliminazione) di barriere architettoniche, si sarebbe limitata a prendere atto dei sopralluoghi e del parere favorevole dell'Azienda U.S.L. n. 1, alla luce dei quali siffatta conformità a legge sarebbe da ritenersi sussistente.
Il Comune di Licata sostiene che la verifica del rispetto di una specifica disciplina di settore, quale quella inerente all'abbattimento delle barriere architettoniche, rientrerebbe nell'ambito di attribuzioni non già proprie del Comune ma di (non meglio definite) "altre amministrazioni competenti" (cfr. memoria del 21 agosto 2006), e, per altro verso, che gli studi di medicina generale, in quanto studi privati, non soggiacerebbero - ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto dell'Assessore regionale della Sanità 8 agosto 2007 - ad alcun obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche, in quanto previsto solo per gli studi specialistici accreditati.
In ordine ad uno specifico elemento (ossia la dedotta non conformità della porta di ingresso dello stabile), la difesa comunale ammette che nella fase istruttoria di rilascio del titolo edificatorio, con riferimento agli obblighi di eliminazione delle barriere architettoniche, sono stati valutati solamente gli aspetti "strutturali" del manufatto, sui quali l'autorità sanitaria nessuna osservazione avrebbe, del resto, svolto.
Il motivo è fondato e, dunque, meritevole di accoglimento.
Ed invero, dal contenuto dei provvedimenti è dato evincersi che, né all'atto del rilascio del permesso di costruire in sanatoria né all'atto del rilascio del successivo certificato di agibilità (depositato in giudizio dalla stessa Amministrazione resistente in prossimità dell'udienza), il Comune sembra aver tenuto conto, in alcun modo, delle indicazioni di cui all'ordinanza del C.g.a. n. 166/2007 con cui era stato prescritto il riesame delle precedenti determinazioni, specificamente con riferimento al rispetto della disciplina sul superamento delle barriere architettoniche.

L'impugnato provvedimento, pertanto, non resiste al dedotto vizio di eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria.
Il semplice riferimento ai pareri e sopralluoghi dell'Azienda U.S.L. n. 1 non cambia i termini della questione, e ciò per la decisiva considerazione che, da una parte, il solo mero richiamo a tali parametri consultivi è insufficiente a far ritenere non difettosa l'istruttoria, dall'altra perché l'azienda sanitaria territoriale non è titolare di competenza alcuna in materia di barriere architettoniche (cfr. d.m. n. 236/1989). Circostanza, quest'ultima, che impone di ricondurre, quanto ad effetti, all'ambito della stretta compatibilità igienico-sanitaria, vale a dire, all'esercizio delle funzioni di controllo sugli studi medici previsti dalla normazione di settore, ogni intervento effettuato dall'Azienda sanitaria di Agrigento nella complessa vicenda procedimentale oggetto dell'odierno giudizio, in più fasi e con forme e modalità diverse.

5.1. Rilevata la fondatezza della censura di difetto di istruttoria dedotto nei motivi aggiunti, che vizia l'impugnato provvedimento, ritiene il Collegio di dover tuttavia fare il punto circa la sussistenza di un obbligo o meno di eliminazione delle barriere architettoniche da parte degli studi di medicina generale convenzionati con il S.S.N., osservando al riguardo che non appare persuasiva la tesi difensiva volta a sostenere che detti studi siano estranei al campo di applicazione di siffatte misure a tutela dei disabili.
Le disposizioni normative che vengono in rilievo in ordine a tale tematica sono:
- l'art. 22 del d. P.R n. 270 del 2000, ai sensi del quale "Lo studio del medico di assistenza primaria è considerato presidio del Servizio sanitario nazionale e concorre, quale bene strumentale e professionale del medico, al perseguimento degli obiettivi di salute del Servizio medesimo nei confronti del cittadino, mediante attività assistenziali convenzionate e non convenzionate retribuite [...]" (comma 1); "Lo studio del medico convenzionato deve essere dotato degli arredi e delle attrezzature indispensabili per l'esercizio della medicina generale, di sala d'attesa adeguatamente arredata, di servizi igienici, di illuminazione e aerazione idonea, ivi compresi idonei strumenti di ricezione delle chiamate" (comma 2); "Detti ambienti possono essere adibiti o esclusivamente ad uso di studio medico con destinazione specifica o anche essere inseriti in un appartamento di civile abitazione, con locali appositamente dedicati" (comma 3);
- l'art. 24 della l. n. 104 del 1992, ai sensi del quale "Tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità di cui alla L. 9 gennaio 1989, n. 13 , e successive modificazioni, sono eseguite in conformità alle disposizioni di cui alla legge 30 marzo 1971, n. 118 , e successive modificazioni, al regolamento approvato con d.P.R. 27 aprile 1978, n. 384 , alla citata legge n. 13 del 1989, e successive modificazioni, e al citato decreto del Ministro dei lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236";
- l'art. 1, comma 1, della citata legge 8 gennaio 1989, n. 13, ai sensi del quale "I progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge sono redatti in osservanza delle prescrizioni tecniche previste dal comma 2";
- l'art. 36 dell'Accordo Collettivo Nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di Medicina Generale ai sensi dell'art. 8 del d. l.gs. n. 502 del 1992 e successive modificazioni e integrazioni stipulato il 20 gennaio 2005, secondo il quale "Lo studio del medico di assistenza primaria è considerato presidio del Servizio Sanitario Nazionale e concorre, quale bene strumentale e professionale del medico, al perseguimento degli obiettivi di salute del Servizio medesimo nei confronti del cittadino, mediante attività assistenziali convenzionate e non convenzionate retribuite [...]. Lo studio del medico di medicina generale, ancorché destinato allo svolgimento di un pubblico servizio, è uno studio professionale privato che deve possedere i requisiti previsti dai commi che seguono" (comma 1);
- il d. Ass. San. 8 agosto 2007 (Esecutività dell'accordo regionale di assistenza primaria) il quale prevedrebbe l'obbligo di adeguamento alla normativa sulle barriere architettoniche solo per gli "studi specialistici accreditati".

Dall'impianto normativo sopra riportato è dato evincersi come la qualificazione di "servizio pubblico" recata dagli accordi collettivi, sia da ritenere ontologicamente incompatibile con l'asserita esclusione dal campo di applicazione della disciplina sulle barriere architettoniche, e ciò alla stregua di quanto previsto per ogni altra struttura sanitaria accreditata, a nulla rilevando che il servizio pubblico di medicina generale di base sia svolto in studi privati, e non cambiando i termini della questione la dedotta opzione ermeneutica proposta dalla resistente Azienda sanitaria, secondo cui andrebbero considerate "aperte al pubblico" esclusivamente le strutture sanitarie di cui agli art. 193 e 194 del t.u. leggi sanitarie: tale affermazione, invero, assume carattere meramente assertivo, e, dunque non può essere condivisa, posto che essa non appare fondata né sul dato letterale delle citate disposizioni né, tanto più, su correlate specifiche coordinate di sistema.
Va, sul punto, segnalato che, in realtà, la disciplina recata dagli accordi soprarichiamati, individua sì i requisiti degli studi professionali, ma essa rimane del tutto silente rispetto agli obblighi in materia di accesso dei disabili.
Né può accedersi ad una lettura di siffatte norme quali recanti la prescrizione di requisiti (asseritamente) esclusivi, tendente a disconoscere l'eterointegrazione con quelli concernenti il rispetto dei diritti dei disabili. Tale approccio interpretativo incontrerebbe due limiti oggettivi: il primo, dato dalla condizione di insanabile contrasto di tale lettura con i principi espressi dalla l. n. 67 del 2006 in tema di discriminazioni (a nulla, ovviamente, rilevando neppure la previsione di cui al d.P.R. n. 270 del 2000, richiamata nella memoria dell'Azienda U.S.L., secondo la quale, a richiesta, il medico è tenuto a recarsi presso il domicilio del disabile non deambulante), il secondo, dato dalla non idoneità degli accordi collettivi - in applicazione di un rigoroso criterio di competenza nel rapporto tra fonti normative - a regolare fattispecie, quale quella in argomento, che attengono unicamente alla sfera legislativa, e, in residua parte, a quella regolamentare locale.

Sotto tale aspetto, va segnalato che, né l'art. 4 comma 9 della l. 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), né l'art. 8, comma 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), quest'ultimo richiamato in ambito regionale con l.r. 3 novembre 1993, n. 30, contengono disposizioni tali da poter far ipotizzare una possibile "disapplicazione" della disciplina legislativa in tema di requisiti strutturali, i cui principi posti a tutela dei disabili appaiono chiari.
Ne deriva che, ai sensi del combinato disposto dell'art. 22 del d. P.R. n. 270 del 2000 e dell'art. 24 della l. n. 104 del 1992, gli studi medici di medicina generale, poiché destinati allo svolgimento di un servizio pubblico (art. 36 accordo del 20 gennaio 2005), vanno considerati, per ciò stesso, locali (quantunque privati) "aperti al pubblico", nell'accezione risultante dal predetto art. 24 (posto che, oltretutto, il medico, alle condizioni fissate dagli accordi regionali, svolge il servizio anche nei confronti di cittadini che non sono suoi assistiti), ossia locali presso i quali la generalità degli utenti del servizio pubblico può accedere senza formalità e senza bisogno di particolari permessi negli orari stabiliti (le cui variazioni sono sottoposte a comunicazione) e sottoposti all'obbligo di eliminazione delle barriere architettoniche secondo quanto stabilito dalla legge, in conformità ai principi di cui alla richiamata l. n. 67 del 2006.

Ciò precisato, e tornando al dedotto difetto di istruttoria, osserva il Collegio che la verifica dell'avvenuto rispetto della normativa in argomento andava effettuata direttamente dall'ufficio comunale procedente, il quale, sulla base anche della perspicua prescrizione del C.g.a., avrebbe dovuto non limitarsi a prendere atto della dichiarazione del progettista e dei pareri e sopralluoghi dell'Azienda U.S.L. n. 1, ma procedere ad una concreta, sostanziale e dettagliata verifica, della quale dare atto nel provvedimento concessorio, tendente a certificare l'effettivo rispetto delle disposizioni normative di riferimento.
Per quanto sopra, sotto tale profilo, il permesso di costruire conseguente l'accertamento di conformità ex art. 36 d. P.R. n. 380 del 2001 va annullato: ciò che - va rilevato incidentalmente - si riflette sul successivo provvedimento attestante l'agibilità dei locali n. 856 del 14 ottobre 2008 (depositato in atti dalla difesa del Comune di Licata in prossimità dell'udienza pubblica). La figura dell'"invalidità caducante" (o "travolgimento" o "effetto travolgente"), infatti, si delinea allorquando il provvedimento annullato in sede giurisdizionale, nel caso di specie il permesso di costruire in sanatoria, costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti consequenziali (quali il certificato di agibilità), sicché il suo venir meno travolge automaticamente - e cioè senza che occorra una ulteriore specifica impugnativa - tali atti successivi strettamente e specificamente collegati al provvedimento presupposto.

6. Con il secondo dei motivi aggiunti, parte ricorrente deduce, ancora, il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, perché il provvedimento concessorio ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 sarebbe stato rilasciato senza, in tesi, tener conto della circostanza che il parere della commissione edilizia comunale fosse in senso non favorevole.
Parte ricorrente assume che, essendo presenti alla seduta della commissione edilizia comunale del 4 marzo 2008 sette membri (dei nove che in totale la compongono) e che, essendosi registrata una votazione con due voti favorevoli, un voto contrario e quattro astenuti, la deliberazione non sarebbe stata approvata, "e che dunque la commissione edilizia [avrebbe] espresso parere negativo".
Il motivo è infondato.
In punto di fatto, dal verbale di seduta della commissione edilizia versato in atti emerge che, in realtà, i presenti erano in numero di otto (e non già di sette) e che l'esito della votazione è stato di tre favorevoli (il presidente ed i membri S. e S.), uno contrario (N.) e quattro astenuti (L., O., P. e R.).
La doglianza di parte ricorrente muove dal principio giurisprudenziale, secondo cui "i membri astenuti devono essere computati per le formazioni del quorum [...]", dovendosi, altresì, tener conto, ai fini della validità delle deliberazioni, "dei voti favorevoli della maggioranza assoluta dei presenti, compresi gli astenuti".
Il Collegio condivide tale indirizzo giurisprudenziale, al quale anche di recente questa Sezione ha prestato adesione (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 23 giugno 2010, n. 7887). Tuttavia va rilevato che esso riguarda la distinta fattispecie del quorum (funzionale) necessario all'adozione delle deliberazioni da parte del consiglio comunale, per le quali è la stessa legge a stabilire che "le deliberazioni sono adottate col voto della maggioranza assoluta dei presenti, salvo che la legge prescriva una maggioranza speciale" (art. 184, comma 2, l.r. 15 marzo 1963, 16), computandosi tra i presenti anche i consiglieri che pur non partecipando alla votazione non si siano allontanati dall'aula.

Nel caso di specie, invero, la deliberazione in contestazione non è stata adottata dal consiglio comunale ma dalla commissione edilizia comunale, per la quale il regolamento edilizio annesso al P.R.G., determina le modalità di espressione della volontà: ciò che rende inapplicabili le regole di legge, come interpretate dalla giurisprudenza, riguardanti la (come detto, distinta) attività deliberativa consiliare.
Il regolamento edilizio del Comune di L. (versato in atti per estratto), stabilisce, infatti, che "per la validità delle deliberazioni è necessario l'intervento di almeno la metà più uno dei componenti, sempreché i membri elettivi siano in numero maggiore o uguale rispetto al numero dei membri di diritto", che "le decisioni sono prese a maggioranza di voti", e che "in caso di parità di voto prevale il voto del presidente".
È evidente come siffatto regolamento - che, sul punto, non è stato impugnato -, abbia disciplinato il funzionamento della commissione edilizia, determinando sia il quorum strutturale sia quello funzionale.

Con riferimento a quest'ultimo, è stata individuata una modalità di realizzazione della volontà collegiale diversa da quella prevista per il consiglio comunale dall'art. 184 O.R.E.L. (ed alla quale la giurisprudenza di questo Tar, richiamata nei motivi aggiunti, si è riportata), all'uopo qui individuando il criterio della cd. maggioranza dei votanti ("le deliberazioni sono prese a maggioranza di voti [...], in caso di parità prevale il voto del presidente). Tale criterio, del resto, non è estraneo al panorama ordinamentale siciliano in materia di funzionamento degli organi degli enti locali, poiché esso era già previsto per l'ipotesi - ormai divenuta mero caso di scuola, stante la sopravvenuta legge costituzionale n. 3 del 2001 - della dichiarazione d'immediata esecutività delle deliberazioni soggette a controllo preventivo di legittimità obbligatorio (art. 16, l.r. 11 dicembre 1991, n. 44, non espressamente abrogato, ai sensi del quale "in caso di evidente pericolo o di danno nel ritardo della relativa esecuzione le deliberazioni di cui all'articolo 15 possono essere dichiarate urgenti ed immediatamente esecutive con il voto espresso dai due terzi dei votanti").
La commissione edilizia, essendosi nella specie espressa con un voto cui hanno partecipato quattro componenti, dei quali tre hanno espresso voto favorevole ed uno voto contrario ha validamente adottato la deliberazione, essendo sussistente il doppio requisito, legittimamente previsto dal regolamento edilizio (art. 8), della maggioranza dei votanti e della presenza della metà più uno dei componenti (quorum strutturale).
Il parere - favorevole - della commissione edilizia va, dunque, ritenuto validamente reso.

7. Con il quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti è dedotta la violazione del decreto dell'Assessore regionale della Sanità 17 giugno 2002, nella parte in cui prevede che "deve essere garantito l'accesso al presidio indipendente da quello utilizzato per altre finalità non riferite all'attività sanitaria e deve essere esclusa ogni forma di comunicazione interna".
Il motivo è infondato stante il campo di applicazione del predetto decreto, limitato alle strutture sanitarie di cui all'art. 67 della l.r. n. 6 del 2001, tra cui non rientrano gli studi di medicina generale.

8. Conclusivamente, assorbita ogni altra questione od eccezione poiché ininfluente o irrilevante ai fini della presente decisione, il ricorso introduttivo va dichiarato improcedibile, mentre il ricorso per motivi aggiunti va accolto stante la fondatezza del primo motivo, con conseguente annullamento, per quanto di ragione, dei provvedimenti con lo stesso impugnati.
Vanno fatte salve, ovviamente, le ulteriori determinazioni di competenza dell'Amministrazione.

9. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione terza, definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe, lo dichiara in parte improcedibile, per il resto lo accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, annulla nei corrispondenti limiti, pure in motivazione specificati, i provvedimenti impugnati con il ricorso per motivi aggiunti, salvi gli ulteriori provvedimenti.
Condanna il Comune di L., in persona del Sindaco pro tempore, l'Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento ed i controinteressati, in solido tra loro, alla rifusione, in favore della parte ricorrente, delle spese processuali e degli onorari di causa che liquida, in ragione di due terzi a carico delle parti pubbliche, ed un terzo a carico dei controinteressati, in complessivi 3.000,00 (euro tremila e zero centesimi), oltre IVA e CPA come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 20 luglio 2010 e del giorno 27 luglio 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Calogero Adamo, Presidente
Anna Pignataro, Referendario
Giuseppe La Greca, Referendario, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 05 AGO. 2010.



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